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La Collezione di
Bicchieri Rotti

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Assurdo come assurda è la vita se vista dalle varie angolature.

Poiché nulla ha più logica dell’irrazionale così sia il mio libro.

Cos’è più naturale per l’uomo? Seguire i dettami della ragione o ascoltare ogni battito dell’anima?

Se è la ragione che cercate questo è l’ultimo tempio dei sentimenti, il trionfo delle sensazioni riflesse in immagini come l’acqua nei colori dell’arcobaleno.

Se il cuore è troppo pesante per volare sia pure l’ancora che mi porta a fondo e io parlerò di quanto sono profondi gli abissi e di quanto illuminano le stelle.

L’ironia sia l’arma e il mezzo sia l’autoironia poiché siamo tutti sospesi in un paradosso.

E chi più chi meno abbiamo tutti la nostra collezione di bicchieri rotti, quegli oggetti taglienti che continuiamo a tenere stretti perchè sono gli specchi del nostro essere vivi. I ricordi di illusioni infrante dal tocco incauto della realtà.

IL BACIO DI UNA MORTA

 PREFAZIONE DI FABIO ZANELLO

 

Una coltre di nubi incombe minacciosa sul mare accarezzato da un vento intenso. Questa è l’immagine che incrocia il mio sguardo, quando lo distolgo dalla tastiera del portatile per fissare l’esterno.E’ un’immagine che avrebbe fatto la felicità di Laura Del Pistoia o meglio di Lady Eveline, visto che le pagine da lei vergate sono colme di queste immagini. Si pensi a quando scrive in un estratto dal racconto “Discesa nel non-senso”: “Fumo, scrivo e... congelo. Fa ancora freddo – forse ho freddo dentro –  ma ha smesso di piovere – e forse stasera incontrerò la pioggia.” 

Vi sembrerà pazzesco, ma mi viene voglia di difendere a spada tratta questi scritti di Laura Del Pistoia.

La storia la sapete tutti: Lady Eveline non è come quelle sedicenti scrittrici che utilizzano il sesso o altre tematiche scabrose per attirare l’attenzione e dunque un alone di scandalo su di sé, in quanto l’unico scopo che ottengono è una produzione letteraria di qualità infima, vero e proprio battistrada per le ospitate nei talk-show e nei salotti della cultura.No Lady Eveline non è nulla di tutto ciò. Lei è realmente quella dark lady, la signora oscura di cui la letteratura iitaliana aveva realmente bisogno. Si pensi a quando scrive: “... l’altro sogno è andato a schiantarsi contro la sporcizia... resterà la passione. Ancora una volta isolata dal mondo.

Lenta la mano, troppe parole si perdono nel vento.... resta qualche macchia d’inchiostro. A volte un titolo lascia più di un contenuto. Rifletterò anche su questo, ma non a mezzanotte. A mezzanotte i pensieri reclamano indipendenza dagli schemi logici.”

I racconti di Laura Del Pistoia esprimono così e al contempo superano la lacerazione che ha spaccato il Novecento attraverso l’opera di altri  autori  come  Dino Buzzati.

Lei è dunque una scrittrice che,  con eccezionale intensità, ci comunica una dialettica fondata sulle  emozioni e le speranze della gioventù. Volete ancora avere la mia opinione?

Lady Eveline o Laura Del Pistoia, come volete chiamarla, ha fornito inoltre alla letteratura italiana un personaggio intriso di spleen malinconico senza mai rinunciare alla dignità del vero essere umano.Bisogna ripeterlo: prima di Carolina Invernizio e del suo romanzo Il bacio di una morta,  la letteratura dark nel Belpaese non esisteva, poi grazie a lei ci furono modelli per noi accettabili.

La  prosa di Lady Eveline  è sospesa fra necessario cinismo e limpidezza da lirica greca, tutti elementi rintracciabili nel racconto “Dannazione d’amore”, storia della passione impossibile fra la vampiressa Rea e il giovane Dave

Lady Eveline scrive:“Rea non sapeva che fare, non voleva che lui la guardasse in faccia…era troppo tardi…”sei un’incosciente!… hai degli occhi meravigliosi e io…che fai sola in giro di notte?” “ti seguivo. Ti seguo da molto tempo, ma non volevo che tu te ne accorgessi, Dave. Io sono Rea, grazie per avermi salvata”.

“Perché mi segui?” “perché hai gli stessi occhi dell’amore, dell’anima gemella che ho perso anni fa…è morta per salvarmi” “sei così pallida…vieni da me, giuro che non ti faccio nulla, voglio solo accertarmi che tu stia bene, dev’esser stato un bello spavento!”

Oppure in “Angelo nero” dove “la rondine che vede volare via il rondinino. Buio senza notte e Sole senza luce. Voglio urlare, uccidere il Silenzio, far salire la mia voce oltre ogni distanza.

…fermarsi e riposare e immortalare il suo ultimo sorriso intrappolando in un sogno lo scorrere del tempo…stringendo forte fra le dita i momenti più preziosi che il mio ricordo possiede.”

La prosa dell’autrice in più non si fida neppure dei sentimenti, come del resto è già avvenuto sopra per la natura.

In “Era” infatti lei scrive :“Alla fin fine non ho ancora capito se credo o no nell’Amore; o forse è così: per me l’Amore corrisposto è eterno solo nelle tragedie, quindi come concetto, come idea, mentre nella realtà l’Amore vero è quello non corrisposto perché, non venendo mai appagato, anche se finisce, rimane eterno come ricordo.

E’ una comoda e comprensibile ipocrisia quella delle coppie che al 50° anno di matrimonio spergiurano di amarsi ancora come il primo giorno: se fosse davvero così non avrebbero bisogno di dirselo a vicenda o di dirlo ad altri. Ma è giusto, perché l’Amore si trasforma in affetto profondo in questi casi e quindi non feriresti mai con la verità una persona cui vuoi molto bene. Allora inizi ad amare i ricordi e ti convinci di amare il presente: almeno credo funzioni così.” 

Un scrittura degna di una dark lady, un trionfo dell’ “I can’t find myself” (Non posso trovare me stesso) che Robert Smith urlava disperatamente in uno degli ultimi CD dei suoi Cure  e, a determinare il successo di tale progetto letterario, sarà l’accettazione della convivenza luce-buio da parte dei marginali in procinto di acquistarlo.

 E se i racconti incontreranno anche il grande pubblico, Lady Eveline ne scriverà altri. 

Dopo, prima o durante l’eternità dei ricordi.  

Una Sybil Vane dei nostri giorni.

Era di nuovo stesa sul letto, i vestiti sparsi sul pavimento, il portacenere straripante di
sigarette. Il telefono squillava, ma lei non c’era, era sulle nuvole nel suo castello di
cristallo.

Aria non viveva realmente, odiava la realtà, voleva solo recitare.

Non era sola, aveva un’amica che le faceva anche un po’ da madre. La sua vita finiva con lei, con Laira. Probabilmente la stava chiamando.
Aria non aveva mai conosciuto l’amore, per questo la realtà le appariva vuota. Come
Giulietta aveva amato Romeo, come Salomè si era strutta per Giovanni, ma come se
stessa provava affetto solo per Laira. Solo quando saliva sul palcoscenico la gente si
accorgeva di lei, ma quando accadeva restava rapita, imprigionata nel suo mondo per
tutta la durata dello spettacolo. Poi però tutti tornavano a casa loro e ricominciavano a
vivere, tranne lei.
Il flusso dei suoi pensieri fu interrotto: Laira era rientrata e sembrava irritata. “Ma è mai
possibile! Sei sempre la solita! Cellulare spento, non rispondi al telefono, accendi una
sigaretta senza accorgerti di non aver finito la precedente… hai bevuto? Hai fumato? Stai bene? Apro la finestra”. Silenzio. “Scusami, lo sai, sono un’artista… devo sboccare”.
Anche a Laira piaceva lasciarsi andare, ma spesso non poteva, doveva restare lucida
almeno lei. In realtà amava quella bambina sconsiderata, quello spirito incosciente, ma
privo di catene. E quando recitava l’amore la faceva piangere.

Aria non era lesbica, ma non si era mai neanche accorta di essere etero. Aveva avuto dei ragazzi, ma le sue relazioni si basavano sul sesso, nessuno si rendeva conto di stringere tra le braccia una creatura meravigliosa, una ninfa dei boschi.
 

Guardami Giovanni! Perché non mi hai guardata? Se l’avessi fatto mi avresti amata!
 

Aria si era ripresa. Tra un paio d’ora sarebbe diventata Cleopatra, tutti gli sguardi si
sarebbero posati su di lei. Riusciva ad essere viva solo come attrice. Laira la guardava
con occhi tristi, si sentiva come se stesse per perderla per sempre. Voleva bere lei
adesso, ma doveva aiutarla a prepararsi.
“Come sto?” “sei bellissima…” la prende fra le braccia e la bacia; Aria la guarda con gli
occhi di una bambina stupita. Silenzio. Laira va sul balcone, Aria si mette al pianoforte.
“Clair de Lune” di Debussy. Laira ha voglia di piangere.


Raperonzolo è in cima alla torre, ma non vuole calare le trecce alla persona che la ama:
non è un principe, ma una dama a cavallo.


Applausi. Ancora una volta per lei. Ancora una volta Cleopatra era morta e aveva smesso
di vivere. Ma questa volta c’erano i giornalisti. Quando uscì dal camerino la circondarono.
Fu investita da domande cui non sapeva rispondere. “da dove vieni? Quali sono le tue
origini? Chi sei nella vita di tutti i giorni?…”

“basta! Smettetela di assillarla, non vedete che è stanca?! Vieni con me Cleopatra, ti porto via da questa confusione”.

Aria era sotto shock, non aveva mai visto due occhi come i suoi, verdi come smeraldi spiccavano contro i capelli nero ebano e ribelli. Restò folgorata da quel ragazzo che le sorrideva senza porle domande. La portò al parco.

“Qui non ci raggiungeranno quegli arroganti tanto stupidi da chiedere a una ninfa quali siano le sue origini! Tu sei figlia delle nuvole, basta guardarti negli occhi per capirlo” “mi chiamo Aria, e tu?” “chiamami Zefiro, cosicché nessun altro possa chiamarmi come te”

“la mia amica Laira… è rimasta sola. Mi porti a casa?”

“dove abiti?”

“nel castello di cristallo… scusa, in via della pace n° 7”

“mi sono trasferito oggi al
n° 9 della stessa via, incredibili le coincidenze della vita, non trovi?”

“già, la vita”

cos’è la vita? Iniziava a chiederselo.


Il rovo aveva perso la sua rosa più bella.


Laira si sentiva soffocare. Il vento le aveva rubato l’ossigeno. Il Jack Daniel’s non tradisce e non abbandona. Però stava finendo. Stava meglio. Non era cosciente più di nulla. Non ce la faceva proprio a restare lucida, sapeva di non poter competere con quello sconosciuto e sapeva che non sarebbe stata una delle solite inutili storie di Aria. Aria, la sua bella fata dagli occhi tanto celesti da sembrare viola, i cui capelli avevano rubato al Sole gli ultimi raggi dorati del tramonto… Aria stava imparando a volare e presto avrebbe lasciato il nido per seguire il vento...
Quando arrivarono trovarono Laira in semicoscienza. Jonathan, si chiamava così in realtà, la sollevò, la mise delicatamente nella vasca da bagno e le bagnò il viso con l’acqua fredda.


La dama arrivò al castello della bella addormentata, spezzò i rovi, salì le scale, ma il
principe era già stato lì e l’aveva svegliata.


Più passava il tempo più l’amore tra i due giovani cresceva e Aria si allontanava da Laira.
Una sera andarono tutti e tre a una festa da ballo che aveva organizzato un ricco
imprenditore in onore della compagnia teatrale di Aria. A mezzanotte circa, mentre lei era in bagno, Laira si avvicinò a Johnny e gli disse: “Aria ama te, non amerà mai me, quindi mi faccio da parte perché non posso darle la felicità. Prenditi cura di lei come ho sempre fatto io e sappi che se le farai del male ti verrò ad uccidere”.

“Perché mi dici così? Dove vuoi andare? Cosa dirò ad Aria quando mi chiederà di te?” “Sono partita alla ricerca di me stessa; quando mi sarò trovata tornerò”.


All’ultimo rintocco della mezzanotte Cenerentola, fuggita dal ballo, ritornò alla realtà:

il bel sogno d’amore era finito.


Passarono dieci anni. Ogni giorno come il precedente.

Laira era andata in America, ma neanche l’oceano poteva separarla da Aria; continuava ad essere al centro dei suoi pensieri. Tutte le ragazze del mondo non avrebbero mai riempito il vuoto che aveva dentro. E inoltre nessuna ragazza l’aveva mai amata sul serio perché lei non apriva il suo cuore: era circondato da mura invalicabili. Così decise di tornare.

Johnny faceva di tutto per vedere Aria felice, ma non ci riusciva: in fin dei conti, non
avrebbe mai potuto sostituire Laira.
Aria aveva amato davvero Johnny per qualche anno, aveva iniziato a vivere, ma ora
provava solo più un voler bene pallido di fronte al fuoco della passione. Nonostante tutto la realtà continuava ad annoiarla e l’unico vero amore per lei restava quello delle tragedie, eterno perché privo di una continuazione.
Finalmente Laira tornò a casa. Aria aveva lasciato Jonathan. Lui continuava a prendersi
cura di lei, ma si era rassegnato ed ora erano amici.


Nessuno, uomo o donna, potrà mai afferrare l’aria, ma nessuno può vivere senza
respirarla.

Un dì perso nel tempo

Presto o forse tardi 

in ogni caso è tempo che scorre

Tardi per me e insieme presto

Presto e tardi per chi?

Dal passato nausea, dal passato cenere

Nel passato sogni vomitati 

e legna bruciata 

troppo in fretta, troppo lentamente 

bruciata nel fuoco 

bruciata senza fuoco 

poi l’esplosione e il gelo della fine 

nella consapevolezza di ripartire da morti s

caldandosi in legami cadaverici

E ora?

Dover agire, ma per farlo 

è ancora troppo presto 

o forse già tardi 

ma in realtà è entrambi

Comunque ogni tessuto è intriso di veleno

Per bere posare le labbra su bicchieri rotti 

sono tutti rotti 

è impossibile non farsi male 

d’altronde è impossibile farsene ancora 

il sapore del sangue è attributo della saliva 

retrogusto di ogni altro sapore

Le lacrime dopo aver visto il mondo 

risalgono veloci le guance 

per rifugiarsi di nuovo negli occhi 

ma non li raggiungono 

evaporano durante il cammino 

così da morti respirare le lacrime dei vivi 

di quando si era vivi 

e il ricordo ci scorre addosso come un fiume in piena 

che rompendo gli argini affoga il presente 

e il presente, inebetito, sviene

Se proiettassi me stessa in uno specchio 

ti potrei chiedere di farmi vivere ancora 

senza sapere che il riflesso è un’illusione 

senza coscienza di essere un’illusione 

e che è troppo presto e troppo tardi 

per rendermi reale

 

scivola la pioggia 

scivola tra le dita 

scivola tra i capelli 

e così cade…

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